Questo contributo nasce nel mese di marzo 2020, quando, in tempi di pandemia, ci siamo trovati chiusi in casa per un periodo i cui limiti non sono mai stati certi, e in cui le modalità di uscita all’esterno sono andati incontro a costanti restrizioni. È uno di quei casi, quello in cui ci troviamo, in cui il bene individuale diventa un valore collettivo, e in cui la responsabilità per il sé diventa responsabilità sociale. Tutelare se stessi corrisponde a fare anche il bene della collettività: il singolo incarna il valore della specie, la specie dipende dal senso etico e civile del singolo.
La pandemia non ha messo in luce solo questo, ma ha anche reso evidenti le debolezze a cui va incontro l’individuo quando viene messo a repentaglio il suo sistema sociale: limitare le relazioni è stato difficile perché a non essere quantificabile è il concetto stesso di limitazione. Se estendiamo il campo d’azione dalla persona alla famiglia e poi al gruppo amicale, al contesto lavorativo e produttivo in generale, allargando via via sempre di più i confini delle restrizioni sociali, arriviamo forse a capire quanto sia complesso agire e prendere decisioni che riguardano la sopravvivenza. Tenere aperti i circuiti che alimentano almeno una base dell’economia, garantire i beni di prima necessità e i servizi necessari significa tenere in movimento milioni di persone su scala globale: per far si che questo sia possibile, oltre ad attivare misure e regole speciali di coesistenza e affiancamento, è indispensabile che tutti i non appartenenti a queste categorie capiscano quanto è necessaria la reclusione. Se ridiscutere ciò che significa “necessario” in termini di contatto e spostamento non è stato finora così semplice, ben più chiaro è stato invece l’impatto (oltre al volume) degli spostamenti che caratterizzano questo tempo: anche qui, in termini numerici, bisogna fare un passo indietro a priori, ma il virus ci ha dato le proporzioni di quanto le connessioni siano facili, veloci e invisibili.