Se Nuovo Vento aziona forme diverse di movimento, Sen Titolo (titoli di film di fantascienza tradotti in Esperanto e incisi sul muro con una moneta di 1 centesimo di Euro, 2019) di Ryts Monet (Bari, 1982) può essere pensato come un’azione lanciata all’infinito. Quest’opera il cui esito formale è un’installazione pensata appositamente per le pareti del suo studio di Vienna (e di cui abbiamo traccia documentale tramite un video) è stata ideata alla fine del 2019 e realizzata in questi mesi, e fa parte di un percorso di analisi che l’artista sta svolgendo sul concetto di utopia.
In questo caso specifico, tutto nasce dal ritrovamento di una collezione di film di fantascienza distopica1 tradotti in Esperanto, una lingua ideata a tavolino tra il 1872 e il 1887 dall’oculista polacco Ludwik Lejzer Zamenhof e pensata come strumento di comunicazione tra i popoli. L’obiettivo era quello di proteggere le lingue minori da un inevitabile estinzione e di creare connessione attraverso un idioma facile, dall’espressività simile a quella delle lingue naturali, il cui obiettivo poteva essere il raggiungimento di una ipotetica democrazia linguistica.
Sono state avviate diverse iniziative che hanno cercato di introdurre l’uso dell’esperanto come sistema di comunicazione2 ma l’obiettivo di farne la lingua ufficiale universalmente condivisa è fallito: per lo più grazie a internet però, questa utopia resiste ancora oggi e continuerà a durare nel tempo come documentazione di uno sforzo di speranza e inclusione. Ryts Monet dà corpo a questa tensione trasferendo i titoli dei più famosi film di fantascienza (altro territorio al limite tra fantasia, innovazione e impossibilità) sulle pareti del suo studio, sporche e contaminate da tanti passaggi. Per fare queste scritte verticali gratta la superficie dell’intonaco con una moneta da un centesimo di Euro: il riferimento all’Unione Europea che ha attuato l’unità fallita dall’esperanto, ma che attraversa momenti e processi continui di criticità nel rapporto tra le nazioni, non è affatto casuale.
Spazio e tempo si chiudono trovando parallelamente - e paradossalmente - in questa chiusura una dimensione potenzialmente inesauribile anche in Hikikomori (video, 22’, 2004) di Francesco Jodice (Napoli, 1967).
Girato a Tokyo, il lavoro documenta alcuni fenomeni della società giapponese e si sofferma in particolar modo su alcune forme di comportamento messe in pratica da gruppi giovanili. In un sistema fortemente competitivo come quello nipponico, in cui gli individui vivono una pressione costante, l’assenza di sogni e aspirazioni o la manifestazione di interesse esclusivo per attività marginali ha provocato la crescita di fenomeni di autoisolamento: hikikomori sono infatti tutti quei ragazzi, appartenenti al ceto medio e istruito, che passano mesi e addirittura anni reclusi in casa, spesso senza uscire neanche dalla loro stanza.
Nel video uno di loro, Masamura di 22 anni, dice che essere otaku, un’altra di queste categorie, significa essere interessati a una sola cosa, quella che ti rende felice. Nel suo caso sono i videogames, a cui gioca fin da quando era bambino e che anche oggi sono un modo di vivere più semplice e facile rispetto a una vita di incontri e interazioni. In questa prospettiva la segregazione può essere una parentesi di calma, oltre che un luogo in cui non dover rispondere a domande sul futuro: è proprio il futuro infatti uno dei canali d’ansia per queste persone, il cui sguardo è capace di vedere solo il qui e ora.
Per rendere la loro strategia di isolamento ancor più concreta invertono spesso i ritmi del loro vivere scambiando il giorno con la notte, inibendo ulteriormente le poche relazioni, seppur virtuali, che si concedono: limitare al massimo lo spazio sostituendolo con quello virtuale, cambiare il tempo e trasformare la relazione da fisica a tecnologica significa sia fermarsi in un attimo congelato, sia estendere questo attimo per sempre.
Lavorano al computer, mediano ogni azione da remoto, non vivono il confronto, la loro vita non ha tappe: possono essere autosufficienti in termini economici, biologici e sociali. È uno scenario terrificante, ma anche curioso: come si può pensare a un presente senza incontri e senza interazioni? E che futuro si può sviluppare da una scelta di questo tipo?
La frase più disarmante però, è detta tra le righe da due skaters, che un tempo sono stati otaku. Raccontano questa dinamica con una certa ironia, e nel tentativo di alleggerire il peso della realtà che descrivono, dicono una cosa su cui di questi tempi è bene riflettere e che in chiusura di questa analisi lascio ai lettori pensando che questo momento possa essere una opportunità per rivedere le meccaniche vissute finora. Essere otaku è essere assuefatti da qualcosa. Non è poi così strano, dicono questi ragazzi, è come essere workaholic, dipendenti dal lavoro.
Una frase accennata, ma che nella mia testa ha l’effetto di una bomba. Siamo davvero sicuri di non aver mai vissuto finora forme di isolamento?
1 La distopia è un sottogenere del cinema (e in generale di tutta la categoria) di fantascienza. Nello specifico è caratterizzata da ambientazioni in un futuro dove tutto è andato storto. In letteratura senz’altro Philip K. Dick è stato uno dei pionieri, e tra le pellicole appartenenti a questo genere possiamo usare quelli selezionati da Ryts Monet, che qui citiamo col titolo tradotto in esperanto (in corsivo) e con il titolo originale riportato a fianco. La tago post morgaŭ, The Day After Tomorrow, Roland Emmerich, USA, 2004; Homidoj, Children of Men; Alfonso Cuarón, UK/USA, 2006; La planedo de la simioj, Planet of the Apes, Franklin J. Schaffner, USA, 1968; La fine de la mondo, La Fin du monde; Abel Gance, FR, 1931; La strato, The Road, John Hillcoat, USA, 2009.
2 L’esperanto è stato pensato per essere usato a livello diplomatico come lingua “super partes”, ma non solo: è stato tradotto il messale cristiano, e persino l’Agenzia delle Entrate lo ha inserito nei totem di prenotazione insieme ad altre 4 lingue.