Se dovessi allestire una mostra con le opere di Re-Index, inizierei con quella di Alessandro Sambini (Rovigo, 1982).
Subito dopo la prima conversazione di gruppo ci siamo confrontati sulle principali indagini critiche che hanno affrontato la natura dello spazio espositivo: con la sua analisi però non ha scelto di dar conto a questo dibattito seguendo o mettendo in discussione linee critiche già percorse, ma ha bensì prodotto un’opera che ha l’obiettivo di attivare un vero e proprio collasso del “sistema-mostra” inteso come cornice di presentazione e fruizione, oltre che come meccanismo di percezione dell’opera.
Il risultato è un videogame le cui modalità sono paradossali e divertenti: il visitatore accede alla mostra cadendo in un tunnel che come quello di Alice nel paese delle meraviglie, conduce a un mondo rovesciato. Sambini ha infatti ruotato di 90 gradi gli spazi della Galleria Michela Rizzo: il protagonista del gioco deve quindi scegliere se avventurarsi o meno tra le sale precipitando letteralmente da un ambiente all’altro nel tentativo di vedere la mostra e guardare le opere.
In questa prospettiva distorta, il tempo da poter dedicare ai lavori è quindi compromesso dalla dinamica della caduta, dall’angolazione e dal punto di vista “verticale”, così come dall’impatto che l’architettura ha sul corpo: il soggetto diventa un avventuriero dell’arte disposto a tutto pur di scoprire le opere, disposto a percepirle in maniera parziale o laterale, a farsi male spostandosi tra le sale pur di completare l’esperienza e sviluppare una propria visione. Sembra l’espressione di uno degli slogan che accompagnano il presente e le sue battaglie, come “se non ora quando” oppure “vote or die”: è l’invito estremo alla partecipazione all’opera, all’attivazione dell’immaginario, alla visione cosciente, ma al tempo stesso può anche essere una critica alle maratone a cui ci costringono (o a cui ci auto-costringiamo) biennali ed eventi corali. Ma cosa rimane veramente? E di quali condizioni abbiamo bisogno per vedere davvero qualcosa?
La prospettiva della caduta in un tempo e in uno spazio precipitato, e il conseguente desiderio per uno spazio e un tempo che consentano lo sviluppo di un’immaginazione reale e critica è anche alla base degli Screen eye-drawings di Matthew Attard (Malta, 1987).
Le modalità del suo vivere e impostare il lavoro durante la quarantena non sono particolarmente cambiate a livello pratico: lo spazio in cui si muove e agisce è sempre quello della tecnologia, ma lo schermo del computer in queste settimane è diventato una vera e propria finestra sul mondo. Certamente nella fase dell’isolamento lo è per tanti di noi, ma nel suo caso questo osservatorio si è concentrato non tanto sul potenziale bacino di informazioni che la rete può offrire, quanto sulla loro reale accessibilità.
Il bombardamento di dati, l’inimmaginabile flusso di contenuti, la mancanza di una formazione che ci permetta di comprendere e contestualizzare, le scelte politiche di selezione e diffusione dei contenuti minano di fatto la possibilità di avere un’immagine fedele di ciò che realmente accade: immagini e informazioni, in questo momento ancor più di sempre, si traducono in messaggi sconvolgenti ma anche parziali, fuorvianti, inutili, illeggibili o del tutto incomprensibili. Attard si sofferma su questo e disegna attraverso l’eye-tracker i contorni di ciò che vede online nella sua attività quotidiana di ricerca delle notizie: il risultato è un insieme ridondante e infinito di immagini e gif animate che ci danno solo l’illusione di vedere e capire cosa presentano i media. L’osservatore è quindi impegnato in un continuo processo di scroll down nel tentativo di arrivare a qualcosa di cui capta solamente i contorni: non resta che vivere la frustrazione dell’inaccessibilità, o l’amaro divertimento dell’aver scoperto un meccanismo impossibile. Oppure lo sviluppo di possibili strategie che permettano di intravedere qualcosa tra le linee e i movimenti di queste emblematiche animazioni.