Restringendo il campo del discorso al solo ambito della arti visive, di questi tempi viene da chiedersi cosa voglia dire stare a casa. Quali sono le ripercussioni negli immaginari e nelle pratiche artistiche? Quali cambiamenti può generare la segregazione? E oltre allo spazio, quali dinamiche si creano avendo più tempo a disposizione?
Queste domande e molte altre sono scaturite da una serie incontri su Skype stimolati da una gallerista, Michela Rizzo, che ha pensato che questo momento dovesse essere analizzato, e che per iniziare a muovere i passi di questa verifica ha invitato Denis Isaia e chi scrive per avere un riscontro critico e curatoriale, oltre a Matthew Attard, Francesco Jodice, Ryts Monet, Antoni Muntadas, David Rickard, Alessandro Sambini e Mariateresa Sartori come voci dell’indagine artistica, e Simona Bariselli come web designer.
Queste conferenze si sono caratterizzate inizialmente come degli scambi di idee sulle situazioni in cui ciascuno di noi si è trovato: Jodice e Sambini a Milano, Ryts Monet a Vienna, Sartori e Rizzo a Venezia, io a Parma, Rickard a Londra, Attard a Edimburgo, Isaia a Rovereto, e Muntadas a San Paolo in Brasile con connessioni praticamente impossibili e il dubbio di poter tornare a New York.
Non solo luoghi, ma scenari diversissimi, anche all’interno della stessa città: Sambini al centro dell’apocalisse, accompagnato nelle sue giornate da sirene ed elicotteri, Jodice in uno spazio tranquillo; poi Londra e Edimburgo, in ritardo clamoroso su contingentamenti e istruzioni alla popolazione in virtù di un ipotetico - e fantasioso - concetto di autoimmunità; oppure ancora l’Austria che come altri paesi ha iniziato la reclusione chiudendo le frontiere.
Si sono prospettati da subito modi e tempi non omogenei, in cui a essere chiara è stata senz’altro un’idea: gli stati e le città hanno risposto al crescere dei contagi, ma la consapevolezza data dall’esperienza degli altri (ad esempio la Cina) si è insinuata molto molto lentamente.
Oltre a ciò, ogni specifica circostanza ha stimolato reazioni diverse anche in base alla tempistica di diffusione del virus e alle misure prese di conseguenza: pensare, auspicare e vivere l’isolamento sono azioni che hanno un impatto molto diverso tra loro.
La stessa durata della segregazione incide profondamente sulla natura dell’esperienza che si vive, sulle domande che sorgono, sulle modalità con cui vivere lo spazio e il tempo, e sulle strategie che vengono messe in atto in generale per rispondere alla situazione.
Tutto questo, e molto altro ancora, ci ha fatto pensare che il nostro piccolo osservatorio di persone potesse senz’altro rilevare movimenti interessanti nell’ambito delle pratiche artistiche: ci siamo chiesti innanzi tutto che effetti ha l’isolamento sui linguaggi, ma anche qual è l’impatto sulle visioni e sul loro modo di uscire al di fuori della mente di chi le produce, così come quali canali sono possibili e quali (o chi) sono i destinatari del lavoro artistico.
L’obiettivo di questa squadra che si è incontrata felicemente a parlare e condividere i propri pensieri è stato principalmente uno: cercare di capire dall’insieme di tutte le esperienze raccolte come possono essere nuovamente indicizzati i valori di spazio e tempo.
Ciascuno ha dato la propria lettura di questo grande tema, e la web designer Simona Bariselli ha tessuto l’idea di questo sito mettendo in relazione interventi, visioni critiche, linguaggi e modalità, producendo di fatto un ulteriore e straordinario livello di lettura e interpretazione.
La struttura si compone come l’indice di un libro, la cui scansione rimane però aperta. Questo momento di approfondimento infatti vuole essere anche un'occasione per cercare di mettere in discussione le modalità di condivisione e relazione del sistema dell’arte: per questo Re-Index potrà raccogliere anche nuovi inserimenti.
I tempi di produzione delle opere e delle idee possono essere diversi, e come abbiamo visto tanti fattori possono condizionare il sorgere di domande e urgenze: per una volta quindi, l’apertura ufficiale di un progetto non sarà del tutto una lotta contro il tempo, e il risultato si potrà raggiungere anche attraverso step progressivi di condivisione dei materiali.
Oltre a questo, Re-Index ha elaborato la volontà di individuare percorsi di maggiore consapevolezza nel mercato: oltre a un preciso lavoro di rilettura della ricerca dei propri artisti attraverso un nuovo ciclo di newsletter, Michela Rizzo ha infatti sentito la necessità di intensificare il lavoro di “avvicinamento” tra artisti e collezionisti. Le ho proposto un formato che ho ideato tre anni fa, You Are Invited: in maniera semplice e informale organizziamo degli aperitivi su Skype tra gli artisti della galleria e i collezionisti che manifestano il desiderio di conoscerli. Speriamo che queste occasioni possano creare una intimità che nelle occasioni di incontro nello spazio fisico possano favorire rapporti più profondi.
In queste settimane il virus e la reclusione hanno creato esperimenti di ogni genere: più che un tema, la pandemia è stato per tanti un modo per muoversi il più in fretta possibile, cercando formule di presenza spesso dovute più alla paura di un rapidissimo oblio – o al bisogno di dare risposte a domande che tra l’altro, almeno nei primissimi giorni, non avevano nemmeno avuto il tempo di porsi - più che ad analisi vere e proprie.
C’è stato anche chi ha fatto proposte sensate, come Milano Art Guide che col Colouring Book1 accompagna le persone nell’isolamento attraverso la quotidiana condivisione di disegni da colorare: più di duecento artisti (e il numero è in continua crescita) hanno partecipato favorendo la percezione dell’infinito potenziale dell’interpretazione, e dell’arte come fonte di gioia , spontaneità e fantasia.
Di tanti progetti digitali, oltre a chi ha prodotto supporto reale per le emergenze sanitarie, e al di là delle iniziative tutte belle ed efficaci dei musei italiani che mostrano collezioni nascoste, informazioni, pubblicazioni e curiosità garantendo preziosità e stupore della scoperta, è forse più sensato ricordare chi da ben prima della pandemia si è rivolto alle piattaforme per produrre modi di vivere, raccontare, diffondere, produrre, analizzare ed esporre l’arte2: oggi molti purtroppo non si sono focalizzati sul potenziale del contenitore, sulle sue regole o sul bacino dei contenuti, e la maggior parte sta sfruttando il solo potenziale comunicativo. L’effetto di questa strategia però è facilmente misurabile: la noia.
E di questi tempi, almeno per me, la noia si materializza in una assuefazione a immagini, video e messaggi che si affollano diventando un magma unico e piuttosto insensato, poco tagliente, per nulla radicale e neppure entertaining. La leggerezza dei social quindi lentamente scompare, e lascia il posto a una pretesa: che ogni azione sia un messaggio. Ma se la prima domanda che genera ogni intervento artistico dovrebbe essere, semplicemente, “perché?”, allora perché non ci sono risposte a questo semplice quesito in tante delle cose che si vedono in giro? Forse perché non sono interventi, ma solamente presenze.
Place for me is the locus of desire Lucy Lippard3
La prima domanda a cui rispondo, dopo questo lungo sistema di premesse, è che cos’è per me lo spazio.
Anni fa, partecipando a un progetto dell’artista tedesca Monika Witte su questo tema, avevo detto che per me può essere relazione, intimità, comunità, bene pubblico, luogo di manifestazione dei conflitti, di solitudine. Di una sola cosa ero certa: per me lo spazio non ha mai a che fare con la distanza, ed è così anche oggi. La geografia per me viene dopo la storia, e anche in un momento in cui lo spostamento non è possibile e il movimento non è letterale, lo spazio è legato all’esperienza e alla relazione. Quantificare la necessità dell’incontro, riflettere sulla qualità delle azioni, su ciò che serve, su ciò che già c’è e su ciò che invece manca è quello che lo connota in questo momento, che si tratti di dimensione privata/personale o collettiva. Lo spazio pubblico oggi è la rete: è il filtro per informarsi, per istruirsi e scolarizzare, per ricevere messaggi, ordinanze e istruzioni, per socializzare, produrre progetti ed esprimere idee.
Nello stare tutti alla stessa finestra l’inevitabile conseguenza è però, oltre alla noia, quella del calo costante della capacità di attenzione: nessuno resiste a lungo nell’enorme massa di contributi di internet. Il numero delle offerte insieme all’immediata assuefazione e alla velocità con cui un dato passa dall’essere uno spunto al diventare un’informazione assodata (e quindi già vecchia) ci rende praticamente immuni all’attenzione: la rete come spazio sociale ha quindi bisogno di nuove politiche e regole di coesistenza e produzione?
Nella visione consapevolmente utopica di chi sta scrivendo, un punto cardine per riformulare dinamiche e situazioni si trova nella frase di Lippard citata in apertura di paragrafo: lo spazio è il luogo del desiderio. Ristabilire un sistema di reali necessità non è forse un modo per trovare interesse nell’individuazione di nuove prospettive?
Ma ancor prima di questo: in un momento in cui a cambiare è la reperibilità dei beni, non dovrebbe essere più semplice capire cosa manca e cosa davvero vogliamo?
All’interno della prospettiva dell’arte, il concetto di desiderio si può forse tradurre con quello di urgenza: quindi, uno spazio e un tempo deformati dalla segregazione come possono influire sull’individuazione di ciò che è necessario per capire, mettere in discussione e affrontare l’identità di un’epoca storica?
Se queste sono le domande che mi sono posta io, Denis Isaia ha contribuito a questo dibattito con una proposta ben più radicale, e molto apprezzata da tutta la squadra. La sua idea afferma e al medesimo tempo risponde a una “logica ecologica”, così la definisce. Le poesie di Billy Collins che ha raccolto raccontano la passività e il rifiuto alla fruizione: fare un passo indietro e ridurre non sono forse dei modi per prepararsi a ripartire?
Gli artisti che hanno deciso di partecipare a questo progetto hanno contribuito con lavori nuovi o già esistenti. Al di là delle varie differenze, ciascuno di loro ha creato opere caratterizzate da un potenziale immersivo piuttosto forte: il racconto che ne faccio in queste pagine è scaturito guardandole (Jodice, Muntadas), ascoltandole (Sartori) o immaginandole (Attard, Ryts Monet, Sambini) nel tempo silenzioso di queste giornate. Il silenzio è in effetti la condizione che più ha inciso nella mia percezione del tempo: quando la città si ferma e il sottofondo sonoro è quello della natura, la sensazione è quella di vivere tutta la giornata come se fosse sempre mattina presto. Il mondo ancora si deve svegliare e l’alba, con la limpidezza della sua luce e la sensazione di poter essere spettatori di ciò che normalmente si perde nelle ultime fasi del sonno, è il filtro che mi sono resa conto di avere e di avere avuto. Non so quanto questo mi abbia aiutato a cogliere il messaggio - o il desiderio -implicito in ogni lavoro, ma di certo mi ha permesso di sperimentare in maniera del tutto imprevista e inaspettata il ritorno a forme potentissime di entusiasmo, commozione e stupore.
1The Colouring Book, a cura di R. Farinotti e G. Biancuzzi. Lo statement riportato sul sito di Milano Art Guide: “In un momento storico per noi senza precedenti, in cui si susseguono quotidianamente misure sempre più restrittive per arginare la diffusione del virus Covid-19, l’unico dovere – nonché scelta coraggiosa e responsabile – a cui ognuno di noi è chiamato a rispondere è quello di rimanere in casa. Per questo, per rendere più leggero e piacevole questo tempo sospeso, Rossella Farinotti e Gianmaria Biancuzzi hanno coinvolto artisti contemporanei di diverse generazioni per realizzare “The Colouring Book” un album virtuale che si compone nel tempo, che tutti, da casa, possono sfogliare e scaricare su smartphone o tablet, oppure stampare su semplici fogli A4 e colorare, da soli o con chiunque condivida con noi la permanenza in casa, siano figli annoiati, nonni, genitori o coinquilini. Gli artisti, con la loro consueta generosità amplificata dalla situazione attuale, mettono a disposizione la loro creatività, regalandoci un modo intelligente per trascorrere qualche ora con allegria”.
2
Ad esempio Caroline Corbetta con Il Crepaccio, una vetrina in via
Lazzaro Palazzi a Milano che dal 2012 al 2016 ha ospitato mostre
dedicate ad artisti emergenti, e che dal 2017 è diventata una
Instagram show: (dal sito ilcrepaccio.org) “Dopo quattro anni di
sgangherata e gloriosa attività nella vetrina di via Lazzaro Palazzi
19 a Milano, e qualche prestigiosa escursione come il Padiglione
Crepaccio at yoox.com alla Biennale di Venezia 2013, il Crepaccio si
lancia nel mondo.
Caroline Corbetta, fondatrice e direttore artistico del Crepaccio,
felicemente ossessionata dall’escogitare modi per consegnare a tutti
le chiavi d’accesso al dorato recinto dell’arte contemporanea, ha
trovato in Instagram la piattaforma ideale per continuare l’attività
espositiva sui generis ed inclusiva del Crepaccio.
Chiusa la piccola vetrina affacciata su strada in uno dei quartieri
più multietnici di Milano, un nuovo Crepaccio si apre nell’immensa
vetrina globale di Instagram e porta con se tutti gli artisti che
accettano la sfida.
L’ipervisualità in tempo reale dello spazio virtuale sta cambiando
tutto, anche il modo di produrre, fruire e assimilare opere d’arte e
mostre che sempre più spesso vengono viste prima (o, addirittura,
esclusivamente) attraverso i social network.
Inoltre, Instagram è pieno zeppo di creatività prodotta a getto
continuo da chiunque per chiunque.
In questo eccitante e selvaggio Far West iconografico, forse può
(r)esistere ancora una specificità dell’immagine artistica;
sicuramente ci sono modalità produttive ed espositive da esplorare e
nuovi pubblici da raggiungere.
Cosi il Crepaccio, da lunedì 13 novembre 2017, si è buttato nella
mischia e prova ad usare Instagram come vero e proprio formato
espositivo commissionando agli artisti dei contributi realizzati ad
hoc (non riproduzioni di opere esistenti) con gli stessi strumenti con
cui mezzo mondo produce e posta foto e video.
IL CREPACCIO INSTAGRAM SHOW -1 artist/5 days /a work a day- è aperto!
Ogni settimana, dal lunedì al venerdì, sull’account Instagram del
Crepaccio si sviluppa un inedito solo show fatto di cinque contributi
commissionati ad un artista da @ilcrepaccio.
IL CREPACCIO INSTAGRAM SHOW è anche un esperimento per testare la
capacità di adattamento dell’arte al di fuori dei contesti
istituzionali.
Il Crepaccio è una crepa nel sistema - com’era all’origine e come sarà
ancora per un bel pezzo”.
Tra gli artisti invece, un nome su tutti: Luca Rossi. Discusso e
controverso, polemico e criticato da tanti, da una decina di anni si
dedica al ruolo dell’autore e all’analisi dell’identità creativa. I
suoi progetti vanno ad analizzare l’immaginario nascosto nella rete,
del suo bacino infinito di immagini prodotte, caricate e poi più o
meno consapevolmente perse; il potenziale degli spazi ufficiali, non
ufficiali e nascosti, l’idea di una autorialità artistica che si può
rivolgere a qualsiasi luogo, i meccanismi della rete e
dell’informazione come la fake news, e molto altro ancora.
3 L. LIPPARD, The lure of the local: senses of place in a multicentered society, The New Press, New York, 1997, p.4